Se c’è una parola simpatica e sofisticata al contempo, nel vocabolario francese, è «amuse-bouche». Parafrasando: diverti-bocca. Che è il modo tutto francofono di indicare quelli che noi, più prosaicamente, chiamiamo antipasti, pur se con qualche vistosa differenza.
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Anzitutto la dimensione: quelli francesi, figli della nouvelle cousine, sono manicaretti di piccole dimensioni, da consumare in uno o due bocconi per “stuzzicare il palato” senza saziarsi, spianando la strada alle portate centrali. E diversa è anche la modalità di consumo: si accompagnano sempre a un vino complementare, i mangiarini d’oltralpe, e non si ordinano alla carta ma sono serviti spontaneamente dall’oste, in un assortimento a discrezione della cucina (di cui sintetizzano lo stile).
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Secondo il celebre chef francese Jean-Georges Vongerichten gli amuse-bouche – o più correttamente «amuse-gueule» (diverti-gola, ma è la prima la versione più nota) – «sono il modo migliore di esprimere grandi idee in piccoli morsi», e gli ispettori della Guida Michelin si mostrano concordi, contemplando la pagina degli antipasti come una delle più eloquenti in menù.
Se sul finire degli anni ’80 hanno vissuto una fase declinante, gli antipasti – specialmente quelli francesi – tornano oggi a far parlare di sè come cifre della creatività degli chef, che sperimentano brodi o mousse unconventional o giocano su pani e formaggi territoriali per “accomodare” i commensali presentando la propria idea di ristorazione.
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